Nell'assemblea furono pure esposte le condizioni stabilite dal Furnari.
Suo nipote Nicolò, di anni 25, doveva essere ricevuto come cavaliere per grazia “senza far prove né pagare passaggio” e doveva essere nominato primo commendatore. Il fondatore si riservava il diritto di nominare altri due successori al nipote Nicolò Monsolino col diritto di essere pure accolti come cavalieri e commendatori. Dopo la morte di Nicolò e dei suoi successori la “Lingua d’Italia” avrebbe potuto disporre liberamente sull'assegnazione della Commenda.
La “Venerabile Lingua” accolse la proposta della fondazione e nominò commissari fra Pietro Salonia e fra Antonino Carafa con l'incarico di esaminarla e di riferire il loro parere. Delegò pure come procuratori i fratelli Girolamo Marulli e Carlo Gattola col compito di recarsi a Reggio per visitare i terreni assegnati in dotazione e di fare una relazione sulla loro consistenza.
In una successiva assemblea tenuta il 28 maggio 1643 i due procuratori esposero i risultati della loro visita con la stima dei beni. Il giardino sito a Gallico in contrada Scacchieri valeva 2.417 ducati. Pure a Gallico un altro giardino in contrada Sant'Antonio aveva il valore di 327 ducati. In esso vi era una torre con tre abitazioni sovrapposte, circondate da un muro e adibite alla lavorazione della seta, il cui valore ascendeva a 700 ducati. Un altro fondo in località Malavendi valeva 627 ducati e un'altro stimato 105 ducati era in contrada Fornace. Nel giardino di Cardeto, chiamato Serra, vi erano gelsi, olivi, viti e alberi fruttiferi. Il suo valore ascendeva a 2.996 ducati con una rendita annua di 254 ducati. In esso vi erano due case per allevare i bachi da seta e una torre con tre camere sovrapposte. Le due case valevano 80 ducati e la torre 130. Vicino alla torre vi era un “battitoio” o “battibanderi” per ripulire gli erbaggi e la seta. Nel giardino in contrada Cesis vi erano piante di agrumi, gelsi e alberi fruttiferi. In esso vi erano una torre e una casa circondata da muro e con tre ambienti nei quali venivano allevati dei bachi da seta. Il valore della casa era di 1.620 ducati e il reddito annuo ascendeva a 92 ducati.
Il palazzo di Reggio con cortile e pozzo d'acqua aveva due porte che si aprivano una sulla piazza di San Nicola e l'altra sulla piazza della Madonna del Carmine. Nel pianterreno vi erano sette camere, la dispensa e un posto per la carrozza. Nel piano superiore vi erano cinque camere e un corridoio e sopra di esso era costruita un’altra camera. Il valore del palazzo ammontava a 2.700 ducati e l'affitto annuo fruttava 120 ducati.
Sopra alcuni terreni gravavano degli oneri. Dal reddito del giardino di Cardeto si dovevano detrarre 6 ducati a beneficio dell’abbazia di Santa Maria di Trapezometa e altri 20 dai frutti di un mulino sito nella stessa località. All'altare di San Silvestro nella chiesa di San Nicolò andavano 11 ducati ricavati dal reddito di un giardino di Gallico. Altre somme furono assegnate sopra censi. Giustino Dionisio di Cardeto doveva versare 20 ducati l’anno per un mulino che aveva acquistato per 200 ducati dall’abate Monsolino con atto del notaio Giovan Cola di Sant’Agata. Giambattista e Marzio Barreca di Reggio erano soggetti al pagamento di l5 ducati l’anno per il prestito di 150 ducati registrato con un atto del notaio Annibale Grandazzo. Sui beni di Diego Borrello di Sambatello del valore di 200 ducati gravava un censo di 20 ducati l’anno come risultava dagli atti dello stesso notaio.
I beni mobili inclusi nella donazione comprendevano tessuti pregiati, mobili, argenteria e quadri. Fra i tessuti figuravano numerose coperte di seta, raso e damasco ornate con frange e drappi per porte e finestre, di cui uno ornato con lo stemma gentilizio dei Monsolino. Tra i mobili furono elencati dei padiglioni lignei costruiti a copertura dei letti e ornati con tendine di seta e damasco, sei sedie rivestite di velluto e sei di pelle, uno scrittorio e una credenza di noce. Facevano parte dell'argenteria una brocca d’argento dorato con bacile del valore di 130 ducati, due bacili, due boccali con due sottocoppe stimati 220 ducati, una sottocoppa con un vaso e un bicchiere d'argento di 70 ducati, una saliera, una zuccheriera e un vaso per il pepe del valore di 100 ducati e due candelieri d’argento, la cui stima ascendeva a 70 ducati.
Nell’elenco dei quadri figuravano i ritratti del re Filippo IV di Spagna, del Granduca di Toscana, del cavaliere Monsolino, di Gran Maestri dell'Ordine di Malta e di altri personaggi. In una tela era dipinto un paesaggio. I quadri di soggetto religioso comprendevano il Figliol Prodigo, otto Santi eremiti, Sant'Antonio di Padova, Sant’Ignazio di Loyola e San Francesco Saverio.
La relazione presentata dai commissari don Pietro Salonia e don Antonino Carafa fu esaminata dai procuratori fra Giacomo Marulli e fra Carlo Gattola. Essi dichiararono d'avere incontrato delle difficoltà perché non constava con quali titoli l’abate Furnari godesse della proprietà dei beni. Era perciò necessario soprassedere in attesa anche che Baldassare D’Amico, procuratore di Livia Geria, erede di Livia Serignano, rendesse conto dell’amministrazione perché la detta Livia aveva avuto come tutore l’abate, dal quale pretendeva quanto le spettava della propria eredità.
L'abate chiari la situazione dichiarando che si era rivolto più volte a Livia Geria per rendere i conti, ma essa si era sempre rifiutata. Egli era stato tutore solo per 33 giorni e non si era potuto accertare dell’esatta rendita della defunta Livia Serignano. Il vicario generale di Nicotera aveva fissato il valore dei beni in 2.000 ducati provenienti dalla vendita di 1.700 pecore e 70 mucche e la somma era stata consegnata a Livia Geria. L’abate teneva ancora in consegna alcuni gioielli d'oro e d’argento del valore di 632 ducati e si riteneva in obbligo di custodirli fino a quando la Geria non avrebbe soddisfatto i suoi doveri verso di lui.
L’abate espose anche il suo diritto sulle altre proprietà. Metà del giardino di Cardeto gli era pervenuta per successione del capitano Agostino Monsolino e l’altra metà per rinuncia dell’erede Laudamia Monsolino, sorella di Agostino. Il giardino in contrada Ceci era toccato alla suddetta Laudamia come parte dell’eredità paterna era stato poi ceduto in usufrutto al fratello capitano Giambattista, che alla sua morte l’aveva lasciato all’abate.
Di un giardino sito a Gallico fu presentato l’atto di acquisto e d’un altro nella stessa località fu mostrato lo strumento di donazione fatto da Livia Corni. Il giardino in contrada Malavendi l'aveva acquistato da Giovanni Domenico Michelotto. Il palazzo di Reggio era stato donato da Laudamia Monsolino al fratello capitano Agostino col peso di 40 ducati l’anno e dopo la sua morte era stato ceduto all’abate senza alcun onere di pagamento. Il possesso dei censi era dimostrato dalla documentazione aggiunta.
Contro l’abate fu presentata un’altra istanza da Ottavio Melissari, marito di Giulia Geria, il quale aveva inviato un testamento del 1612 a conferma del lascito di un giardino a Gallico fatto da Scipione Monsolino a beneficio del nipote Diego Strozzi.
Durante l'assemblea della “Venerabile Lingua d'ltalia” tenuta il 16 gennaio 1644 sotto la presidenza dell'ammiraglio Pietro Anselmi il commendatore Pietro Salonio e il cavaliere frà Francesco D'Afflitto riferirono intorno ad altri litigi e pretese sorti dopo la donazione. Laudamia Monsolino, erede dell'abate, aveva presentato un ordine emesso dal vescovo di Gerace ad istanza del procuratore fiscale della Camera Apostolica affinché venissero esaminati alcuni testimoni per conoscere se l’abate aveva fatto dei negozi illeciti e che cosa aveva disposto a favore dei figli spuri.
Contro la donazione protestarono pure, per mezzo del notaio Silvestro Raucio, Giulia Geria che aveva preso possesso del giardino sito in contrada Cesis, il marito Ottavio Melissari e fra Domenico Barone. Fu però verificato che i giardino era stato di proprietà di Laudamia Furnari, la quale aveva fatto donazione al fratello abate con l’onere di provvedere al suo mantenimento.
Altra questione riguardava il giardino di Cardeto, già proprietà del defunto Matteo Monsolino. Nella divisione dell'eredità una parte era toccata al capitano Agostino Monsolino e si pretendeva che essa spettasse agli eredi Domenico, Ippolita, Anna, Maddalena e Giovanni. In contrario fu presentato un decreto della Corte di Sant’Agata col quale era stato revocato il possesso agli eredi di Agostino Monsolino a favore di Laudamia, erede dell’abate. Contro le accuse di Giulia Geria e del marito Ottavio Melissari l’abate dimostrò pure che da 40 anni possedeva i beni siti a Cardeto e il giardino in contrada Cesis.(??)
A conclusione di tutte le prove, che documentavano il legittimo possesso dei beni, i commissari don Pietro Salomia e fra Francesco D'Afflitto giudicarono accettabile la donazione e chiesero che venisse confermata dal Gran Maestro e dalla Santa Sede. Era pure necessario inviare un cavaliere a Reggio per stipulare l'atto notarile. Fatta la votazione a scrutinio segreto fu incaricato di prendere il possesso dei beni fra Federico Gotto, ricevitore di Messina, per mezzo dei procuratori fra Girolamo Marulli e fra Euclide Bava.
La delega fu sottoscritta a La Valletta nell’isola di Malta il 30 gennaio 1644. A conferma del diritto di possesso furono consegnati ai delegati l’atto di donazione fatto dall’abate e rogato dal notaio Annibale Grandazzo il 22 agosto 1643 e l’atto di rinuncia della nipote Laudamia Monsolino fogato dal notaio Livio Laganà il 19 novembre dello stesso anno.
Il nuovo e definitivo atto di donazione fu stipulato a Reggio dal notaio Livio Laganà il 18 febbraio 1644 e venne sottoscritto dall'abate e dalla nipote col consenso e l'autorità del consanguineo Diego Strozzi.
Conforme alle condizioni poste dall’abate il nipote Nicolò Monsolino fu accolto come cavaliere dell’Ordine e venne investito del possesso della Commenda con l’obbligo di versare ogni anno al “Comun Tesoro” 40 ducati e di apportare tutti i miglioramenti possibili ai beni terrieri. Lo stesso Nicolò e tutti i successori nella Commenda ogni anno nelle feste di San Giovanni Battista e di San Nicolò dovevano cantare i vesperi e far celebrare una messa nella chiesa della Commenda. Essi godevano inoltre di tutte le prerogative, privilegi e indulti concessi ai commendatori dalla Santa Sede, dagli imperatori e dai principi cristiani.